Voci sulla violenza
Una voce al giorno per 16 giorni per raccontare e approfondire i temi legati alla violenza contro le donne.
Le voci, curate dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, accompagnano il Festival e promuovono 16 giorni di attivismo, eventi e incontri per dire no alla violenza contro le donne.
La Giornata Internazionale Contro la violenza sulle donne venne istituita per la prima volta nel 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con l’obiettivo di sollecitare i governi, le agenzie internazionali e i soggetti della società civile ad organizzare e promuovere attività volte a facilitare una presa di consapevolezza circa il problema della violenza sulle donne. La giornata ricorre il 25 novembre di ogni anno e la data non rappresenta una scelta casuale. Si tratta infatti dell’anniversario del brutale assassinio, avvenuto nel 1960, delle sorelle Mirabal: Patria, Minerva e Maria Teresa, tre giovani donne che espressero il loro dissenso verso la dittatura di Rafael Leonida Trujillo in Repubblica Domenicana. Le tre sorelle, che militavano con il nome di battaglia Las Mariposas (le farfalle), divennero in patria simbolo ed esempio della lotta di liberazione e il loro assassinio, ordinato espressamente da Trujillo, scosse profondamente il paese segnando la fine della dittatura.
In Italia la celebrazione del 25 Novembre ha tardato a prendere piede rispetto ad altri paesi – come ad esempio l’America Latina – divenendo una ricorrenza riconosciuta a livello nazionale solamente nell’ultimo decennio, anche e soprattutto grazie al lavoro di sensibilizzazione e promozione portato avanti con il Festival La Violenza Illustrata organizzato ormai dal 2006 dalla Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna.
Nelle principali città italiane si organizzano manifestazioni, mostre, cortei, convegni e installazioni per ricordare le vittime de affrontare il tema della violenza di genere; nelle scuole si producono laboratori ed eventi didattici volti ad avvicinare e sensibilizzare le giovani generazioni. A livello mediatico, solo da qualche anno, tv e radio hanno iniziato a celebrare la ricorrenza, inserendo nel palinsesto quotidiano film, documentari e talk speciali sul tema.
Il 25 Novembre, come rimarcato anche lo scorso anno dalla Commissione europea, ci ricorda che la violenza sulle donne non può e non deve essere considerata una pratica normale, accettabile e inevitabile. La violenza contro le donne rappresenta in tutto e per tutto una violazione dei diritti umani poiché, quando esercitata, compromette il benessere generale delle donne e impedisce loro di partecipare pienamente alla vita della società.
La Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica – meglio nota come “Convenzione di Istanbul” – è stata adottata dal Consiglio d'Europa l'11 maggio del 2011, ed è entrata in vigore il 1° agosto del 2014. È il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. È il primo trattato internazionale ad adottare una definizione di genere che proponga una distinzione tra uomini e donne non unicamente basata sulle loro differenze biologiche, ma come risultato di categorie sociali che costruiscono il maschile e il femminile in quanto portatori di comportamenti e ruoli differenti. Particolarmente rilevante nella Convenzione è il riconoscimento della violenza contro le donne come violazione dei diritti umani. Con la ratifica della Convenzione gli stati firmatari si impegnano a introdurre, qualora non ancora presenti all’interno dei loro ordinamenti, una serie di nuovi reati quali le mutilazioni genitali femminili, il matrimonio forzato, l’aborto forzato, la sterilizzazione forzata e i comportamenti persecutori: il cosiddetto stalking.
La Convenzione protegge tutte le donne e le ragazze, indipendentemente da origine, età, razza, religione, ceto sociale, status di migrante od orientamento sessuale. Riconosce inoltre che ci sono gruppi di donne e di ragazze più vulnerabili di altri al rischio di subire violenze, e istituisce l’obbligo per gli stati di garantire interventi efficaci al fine di soddisfare i loro bisogni di protezione.
Per garantire l’efficacia delle disposizioni della Convenzione, il Consiglio d’Europa si serve di un organismo indipendente, il GREVIO, composto da esperte ed esperti sul tema che si occupano di monitorare l’effettiva applicazione della Convenzione di Istanbul in tutti i paesi che l’hanno ratificata. L’Italia ha svolto un ruolo importante nella promozione e nel sostegno della Convenzione, essendo stata tra i primi paesi europei a ratificarla con la legge 77 del 27 giugno 2013. Tuttavia le basi per un’applicazione di fatto più efficace sono caratterizzate da insufficienze importanti in termini culturali, sociali, giudiziari, formativi e finanziari. Siamo solo agli inizi e i Centri antiviolenza chiedono l‘implementazione di tutti gli articoli in modo più sistematico e organico.
Ad oggi la Convenzione di Istanbul è stata ratificata da 27 paesi europei ed è siglata dall’Unione Europea e da un totale di 44 stati facenti parte del Consiglio d’Europa.
La violenza maschile sulle donne assume molteplici forme e modalità, sebbene quella fisica sia probabilmente la più nota e quella più facilmente riconoscibile. Comprende ogni atto volto a danneggiare o minacciare la propria vittima e può avere conseguenze più o meno gravi per la donna che le subisce. Per violenza fisica si intendono atti quali: il lancio di oggetti, lo spintonamento o lo strattonamento, gli schiaffi, i morsi, i calci o i pugni; il colpire o cercare di colpire con un oggetto, le percosse, le minacce con arma da fuoco o da taglio, l’uso di arma da fuoco o da taglio. Secondo i dati raccolti dalla ricerca Violenza contro le donne: una ricerca europea condotta nel 2015 dall’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA) circa il 31% delle donne europee ha fatto esperienza di uno o più atti di violenza fisica nel corso della propria vita. Tali atti di violenza risultano essere per lo più agiti dal partner o dall’ex partner; solo una donna su cinque, tra quelle che dichiarano di aver subito violenza, indica l’aggressore come qualcuno di diverso dal partner o dall’ex partner. Una ricerca simile condotta nel 2014 dall’ISTAT rileva che dal 2009 al 2014 circa il 7% (1 milione e 517 mila) donne italiane sono state oggetto di violenza fisica. L’ISTAT rileva che le donne italiane subiscono minacce nel 12% dei casi, sono spintonate o strattonate nell’11,5% dei casi, sono oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi nel 7% dei casi e sono colpite con oggetti che possono fare male nel 6%. Seppur meno frequenti la ricerca ha rilevato anche la presenza di forme più gravi di violenza come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Anche nel nostro paese le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, ex partner, parenti o amici. Sebbene si operi una distinzione fra le diverse forme e i diversi ambiti di violenza è bene considerare che difficilmente la violenza fisica si costituisce come evento isolato bensì si inserisce in un contesto definito «continuum della violenza»: un’escalation di offese, minacce, denigrazioni, soprusi e abusi del quale l’aggressione fisica e il femminicidio rappresentano solo l’apice.
Il femminicidio rappresenta la forma più estrema di violenza sulle donne: l’omicidio di una donna avvenuto per motivi di genere. In ambito anglosassone la parola venne introdotta nel 1992 col libro pubblicato dalla studiosa femminista Diana Russels, intitolato: Femicide: the politics of woman killing. In questo testo l’autrice fa emergere l’uso sistematico e quindi politico di questo reato come strumento di controllo del maschile sul femminile.
Il termine femminicidio venne impiegato in modo più sistematico per indicare la sparizione e uccisione di migliaia di donne impiegate nelle fabbriche di Città Juarez in Messico, i cui resti venivano spesso rinvenuti nel deserto che circonda la città.
In Italia il fenomeno del femminicidio, come termine specifico, ha iniziato ad acquisire visibilità solo dopo il 2000, ma è importante ricordare che è sempre esistito e che fino a nemmeno quarant’anni fa il nostro ordinamento prevedeva il “delitto d’onore”: ovverosia la concessione di forti sconti di pena per coloro che uccidevano il proprio coniuge giustificando la propria azione con la necessità di tutelare o restaurare il proprio buon nome di famiglia
In una indagine condotta dall’ISTAT del 2017 sulle vittime di omicidio in Italia emerge che l’80% degli omicidi di donne nel nostro paese sono perpetrati per mano di una persona che la donna conosceva. In particolare, sempre secondo l'ISTAT, quasi 5 donne su 10 sono state uccise per mano del proprio partner o ex partner. Questo dato appare particolarmente significativo considerando che poco più di 2 uomini su 10 vengono uccisi da una persona che conoscono e che solo 3 uomini su 100 muoiono per mano del proprio partner o ex partner.
Considerando che negli ultimi anni gli omicidi maschili sono in costante diminuzione, mentre la percentuale di donne uccise rimane pressoché invariata, appare evidente la dimensione sistemica che il femminicidio assume anche nel nostro paese e mette in evidenza la necessità di lavorare fortemente per sradicare la cultura sessista che ne è alla base.
La Casa delle donne per non subire violenza di Bologna è da anni impegnata in azioni di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul fenomeno. Fra le numerose iniziative promosse è importante ricordare il rapporto annuale che pubblica, dal 2011, sulle vittime di femminicidio in Italia, nel tentativo di ricostruire i numeri del fenomeno. Secondo i dati raccolti dalla Casa delle donne per non subire violenza negli ultimi 10 anni 1333 donne sono state vittime di femminicidio in Italia, di queste 115 sono state le donne uccise solamente nel 2018. Nell’ultimo anno il 63% dei femminicidi, censiti dalla Casa delle donne – e per cui è noto l’autore – sono stati commessi dal partner o dall’ex partner della vittima. Nel 2018 le prime tre cause di morte sono state le armi da fuoco, usate nel 28% dei casi, seguite dalle armi da taglio, impiegate nel 27% dei casi e dal soffocamento, riscontrato nel 17% dei femmincidi. Le donne muoiono soprattutto in spazi privati: muoiono in casa nel 70% dei casi ma anche – seppur in misura molto minore – in automobile. E’ importante ricordare che l’età, l’estrazione sociale, la provenienza, il titolo di studio non sono fattori attraverso cui è possibile determinare la vulnerabilità di una donna alla violenza rispetto ad un’altra: il femminicidio è trasversale alle appartenenze sociali e colpisce tutte le donne, senza distinzioni.
Il Centro antiviolenza è una struttura in cui vengono accolte donne che subiscono o sono minacciate da qualsiasi forma di violenza. Il Centro offre diversi servizi alle vittime di violenza: accoglienza telefonica, colloqui personali per l’uscita dalla violenza e ospitalità nelle Case rifugio. Accoglie le donne con o senza figli offrendo aiuto e protezione nel percorso di uscita dalla violenza.
Negli anni ’70 grazie alle analisi sviluppate dal movimento femminista soprattutto in Gran Bretagna e Stati Uniti, la violenza domestica iniziò ad emergere come fenomeno strutturale. Da allora prese avvio la creazione di strutture per aiutare e sostenere donne e minori nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Così il movimento dei Centri antiviolenza ha contribuito a rompere il silenzio a cui le donne erano costrette da millenni.
In Italia nel 1991, quando i Centri antiviolenza erano appena nati erano ancora meno di una ventina si è costruita la prima Rete dei Centri antiviolenza, una rete informale, costruita sugli scambi, confronti, formazione: un'esperienza che cresceva aumentando con essa la voglia e l’urgenza di fare politica e cambiare la sensibilità culturale sul tema violenza contro le donne.
Nel 2008, i Centri antiviolenza si sono organizzati costituendo una rete nazionale che aggrega 80 associazioni in un’unica grande organizzazione denominata D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza. Si tratta di una federazione nazionale di Centri antiviolenza gestiti da enti di sole donne che si rifanno a una pratica e analisi femminista.
Inoltre in molte città si sono costituite reti o tavoli istituzionali per favorire il coordinamento di tutti gli enti coinvolti nell’accoglienza alle donne che subiscono violenza: i centri antiviolenza, le forze dell'ordine, i pronto soccorsi, i servizi sociali e altre agenzie competenti sul tema.
In Emilia-Romagna nel 2009, si e costituito il Coordinamento dei Centri antiviolenza che comprendesse tutti i Centri del territorio costituiti da donne, ha come obiettivo la condivisione di metodologie, la formazione, la buone prassi e visibilità politica a livello regionale.
In Europa esiste WAVE: Women Against Violence Europe, che riunisce oltre 5000 Centri antiviolenza in 46 diversi paesi d'Europa. Wave è una organizzazione ombrello che opera al fine di fare “lobby” a livello europeo, produrre politiche su temi della violenza contro le donne, promuovere progetti e ricerche e campagne di sensibilizzazione.
A livello mondiale vi è la rete Global Network of Women's Shelter (GNWS), nata nel 2008 a Edmonton (Canada) durante il primo convegno mondiale dei Centri di donne contro la violenza che continua da allora la sua attivitá a livello internazionale.
La Casa delle donne per non subire violenza di Bologna fa parte, sin dalla sua costituzione, delle diverse reti nazionali, europee e mondiali poiché la violenza contro le donne è un problema globale da combattere anche attraverso forti reti internazionali.
La violenza sessuale è un atto di violenza commesso da chi usa la propria forza fisica, la propria autorità o qualsiasi altro mezzo per costringere un’altra persona a subire o a compiere atti sessuali contro la propria volontà.
Secondo l’interpretazione che viene data di questo tipo di violenza negli studi di genere e nella lettura femminista, la violenza sessuale è l’espressione più visibile di quella che viene chiamata “cultura dello stupro” e quindi l’insieme di atteggiamenti, norme e pratiche che giustificano – e talvolta incoraggiano – lo stupro e la violenza sulle donne.
La violenza sessuale non ha nulla a che vedere con la gratificazione sessuale, ma rappresenta una delle modalità ricorrenti attraverso cui l’uomo rafforza la propria posizione di potere e di dominio sulla donna. La cultura dello stupro si esprime principalmente attraverso: l’oggettivazione sessuale delle donne, ovverosia la continua rappresentazione del corpo femminile come oggetto di soddisfacimento erotico; il fenomeno dello slut-shaming, la colpevolizzazione di tutti quei comportamenti femminili che si discostano dai codici di condotta sessuale femminile socialmente approvati, e soprattutto, attraverso il cosiddetto victim blaming, che sta nell’attribuire una corresponsabilità alla donna nella violenza subito da ricercare, ad esempio, nell’uso di un vestiario considerato seducente.
La violenza sessuale è punita nel nostro ordinamento dall’articolo 609-bis del codice penale. Il codice prevede il riconoscimento di una pena a quanti compiano atti di violenza costringendo una persona non consenziente a subire o compiere atti sessuali, riconoscendo l’aggravante nei casi in cui la vittima sia in condizioni di inferiorità fisica o psichica. Una ricerca condotta dall’ISTAT nel 2014 rileva che in Italia dal 2009 al 2014, 1 milione 369 mila donne hanno denunciato di essere state vittime di violenza sessuale: di queste quasi 300 mila sono state vittima di stupro o di tentato stupro. Al contrario di quanto comunemente si crede, la violenza sessuale viene esercitata maggiormente in ambito domestico e famigliare: gli stupri sono commessi nel 63% dei casi dal partner della vittima, nel 4% da suoi parenti e nel 9% da amici e conoscenti.
Pochissime donne denunciano gli episodi di violenza sessuale di cui sono vittime, soprattutto in ragione dei timori di non venire credute o di divenire oggetto di vittimizzazione secondaria anche nel percorso giudiziario venendo colpevolizzate socialmente per quanto accaduto loro.
Meno nota rispetto ad altre forme di violenza contro le donne, la violenza economica viene definita dalla Convenzione di Istanbul come l’insieme delle possibili misure prese da un uomo per esercitare forme di controllo e di monitoraggio nei confronti di una donna in termini di uso e di distribuzione del denaro.
Tale forma di violenza è atta a privare le donne di autonomia economica e finanziaria, ostacolandole quindi nella costruzione e realizzazione di progetti di vita indipendenti da quelli previsti per loro da uomini maltrattanti. A differenza di altri tipi di violenza, la violenza economica è particolarmente difficile da riconoscere e da denunciare anche da parte di chi ne è vittima. Questa difficoltà è legata, in parte, a un’idea che sussiste ancora oggi, quella per cui parlare di denaro al di fuori dell’ambito familiare rappresenti un comportamento socialmente deplorevole, ma è anche espressione delle molteplici forme che la violenza economica può assumere e che la rendono un fenomeno particolarmente complesso da rilevare. Per esempio, oltre che a essere loro impedito di esercitare un controllo diretto dei propri guadagni e risparmi o a essere costrette ad abbandonare il proprio lavoro, le donne vittime di violenza economica possono dover cedere le proprie proprietà in favore dei propri partner, possono essere obbligate a lavorare informalmente all’interno di aziende a conduzione famigliare senza poter però godere delle tutele previdenziali di cui avrebbero diritto o, ancora, possono venire costrette ad assumere su di loro oneri finanziari invece dei propri partner.
Fra gli ostacoli che rendono particolarmente difficile l’uscita da relazioni di tipo violento l’assenza di risorse economiche personali rappresenta forse una delle caratteristiche più comuni alle donne vittime di maltrattamenti: è per questa ragione che il contrasto alla violenza economica e la promozione di forme di emancipazione finanziaria femminile rappresentano dei passaggi fondamentali nel contrasto al fenomeno della violenza sulle donne. Nonostante la violenza economica non goda oggi della visibilità riservata ad altre forme di violenza essa rappresenta un problema essenziale per moltissime donne. Secondo uno studio pubblicato nel 2017 dall’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (FRA) il 12% delle donne europee ha subito una qualche forma di violenza economica da parte del proprio partner nel corso della propria vita.
Tra le varie forme di violenza contro le donne, la violenza psicologica rappresenta forse quella più complessa da individuare, anche se le conseguenze di questo tipo di violenza sono devastanti per le donne che si trovano a subirla.
La violenza psicologica racchiude tutti quei comportamenti volti a umiliare, svalorizzare, controllare e intimidire una donna al fine di farle perdere fiducia in se stessa e isolarla dal suo contesto sociale.
La violenza psicologica, non lascia segni visibili sul corpo ma mina in maniera devastante l’equilibrio psicologico, viene perpetuata attraverso una miriade di comportamenti e azioni quotidiane: attraverso l’impiego di frasi di scherno e l’uso di insulti, il controllo ossessivo e la svalutazione di quanto ritenuto importante dalla donna, la manipolazione e la privazione dei contatti sociali, la minaccia distoglierle i figli, attraverso la graduale riduzione dell’autonomia decisionale della donna, fino alla sua segregazione all’interno delle mura domestiche. Il controllo psicologico gioca un ruolo fondamentale nel determinare l’avvio di quello che viene chiamato “ciclo” o “spirale” della violenza.
Il “ciclo della violenza” rappresenta l’escalation di comportamenti violenti che si riscontra all’interno di ogni relazione abusiva. Nella spirale della violenza l’uso di quella psicologica determina, di fatto, l’assoggettamento della donna all’uomo che – attraverso la sua alienazione e l’incutere della paura – la obbliga a tollerare atti che non avrebbe altrimenti liberamente accettato di subire.
Secondo una ricerca condotta dall’ISTAT nel 2014 il 12% delle donne dai 16 ai 70 anni subisce regolarmente episodi di svalorizzazione e violenza verbale da parte del proprio partner o ex partner; un altro 12% dichiara che il partner o l’ex partner esercita su di loro una qualche forma di controllo, mentre 13 donne su cento ritengono di essere state isolate dal proprio partner o ex partner. Sempre secondo l’ISTAT le violenze psicologiche più gravi riguardano l'1,2% delle donne in coppia, per un totale di 200 mila donne, mentre i figli sono stati usati come oggetto di minaccia e ritorsione per circa 50 mila donne. Per le donne che si sono separate la strumentalizzazione e la minaccia verso i figli raggiunge il 3,4%, le violenze psicologiche più gravi il 13,5%.
L’uso dei figli come strumento di ricatto emotivo per le donne è alla base dell’affermazione delle teorie legate alla PAS o Sindrome da Alienazione Parentale. Tale sindrome, che non trova riscontro a livello scientifico o legislativo, vorrebbe l’emergere del rifiuto, nei minori in situazioni di separazione o affidamento, di frequentare uno dei due genitori, il cosiddetto “alienato”, come il prodotto del pressing psicologico esercitato dall’altro genitore, l’”alienante”. Di fatto la PAS si rivela nient’altro che un altro strumento di occultamento della violenza, un nuovo e ulteriore bavaglio sulla bocca e sulla parola delle donne, che devono fare i conti non soltanto col senso di vergogna e impotenza ma anche con la paura di perdere le proprie figlie e i propri figli. I Centriantiviolenza, molte esperte, docenti universitarie come Patrizia Romito, da anni si battono affinché questa prassi estremamente discriminatoria nei confronti delle donne e nociva per i figli minori non venga applicata dalle corti di giustizia nel nostro paese.
Lo stalking – o l’atto persecutorio - è disciplinato in Italia dall’articolo 612-bis del codice penale. Tale reato è stato introdotto solo nel 2009, in grande ritardo rispetto ad altri paesi europei.
Commette reato di stalking chi, con comportamenti reiterati, minaccia pedina, molesta, effettua telefonate o riserva attenzioni indesiderate che generano, nella donna che li subisce, uno stato d’ansia e di paura che perdura e timore per la propria incolumità, tali da arrivare anche a modificare o stravolgere le proprie abitudini quotidiane.
Sebbene in termini legislativi il reato si riferisca ad un generico maschile universale, esso viene compiuto soprattutto dagli uomini contro le donne, generalmente partner o ex partner. Lo stalking si manifesta più spesso come una serie di comportamenti reiterati, insistenti, intrusivi e lesivi, agiti nei confronti di una persona col quale si ha, o si immagina di avere una relazione. Molto più frequenti, infatti, sono i casi in cui il cosiddetto stalker è il compagno, o un ex o uno che pretende una relazione.
Secondo una ricerca condotta nel 2014 dall’ISTAT circa il 21,5% delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito comportamenti persecutori da parte di un ex partner nell’arco della propria vita. Per il 59% dei casi il comportamento persecutorio si è verificato al momento della separazione o dopo ed è continuato per mesi, nel 20% dei casi è durato più di un anno, con una frequenza settimanale nel 70% dei casi.
Proprio in virtù di questi dati l’introduzione del reato ha rappresentato una conquista importante nella risposta giudiziaria alla violenza di genere. Di fatto è sempre più consueto che la condotta persecutoria tipica dello stalking si riveli nient’altro che un preludio, già di per sé da riconoscere come violento, ad altre forme di violenza di genere, incluso il femminicidio.
Nel giugno del 2017 con l’approvazione dell’art.162-ter del codice penale, era stata introdotta la possibilità di estinzione del reato per condotte riparatorie: in altre parole se la persona offesa avesse deciso di ritirare la querela, il giudice competente avrebbe potuto decidere l’estinzione del reato nel caso in cui l’autore avesse proposto alla vittima un risarcimento ritenuto congruo dal giudice stesso, anche nel caso di opposizione esplicita della vittima. Includere il reato di stalking tra quelli estinguibili con condotta riparatoria, senza assicurarsi del consenso della vittima, avrebbe significato esporre la vittima stessa a un’ulteriore violenza, quantificando in denaro il suo vissuto senza offrirle una tutela nel caso di rischio di una recidiva. La levata di polemiche seguite alla riforma ha fatto in modo che la senatrice Puglisi, già presidente della Commissione Femminicidio al Senato, varasse un emendamento che escludesse l’applicabilità dell’estensione del reato per condotta riparatoria in tutti i casi di comportamento persecutorio.
Il concetto di doppia discriminazione si applica a tutte quelle donne che, oltre a essere discriminate in quanto donne, subiscono altre forme di pregiudizio per il loro essere portatrici di altre identità sociali quali: essere straniere, essere di colore, essere portatrici di disabilità, appartenere a gruppi etnici marginalizzati, o sulla base del loro orientamento sessuale.
Le donne disabili, ad esempio, condividono con le altre donne gli effetti legati al dover vivere in una società fortemente permeata da una cultura sessista, ma sono anche soggette alle fortissime discriminazioni e limitazioni che spesso vengono loro imposte dal loro essere disabili. In particolare, per quanto riguarda le pari opportunità nell’accesso al mercato del lavoro, secondo i dati diffusi dall’ISTAT nel 2015, solo poco più del 35% delle donne con limitazioni funzionali, invalidità o malattie croniche gravi lavora, a fronte del 52% degli uomini nelle stesse condizioni. Allo stesso modo le donne con disabilità tendono a essere particolarmente vulnerabili alla violenza maschile, basti pensare che il rischio di subire abusi sessuali per una donna disabile è di oltre due volte più alto rispetto a quello di una donna senza limitazioni funzionali, così come più alto è il rischio per le donne disabili di essere vittime di comportamenti persecutori e di subire violenza psicologica da parte del proprio partner.
E’ bene ricordare che la doppia discriminazione agisce sulle donne non semplicemente sommando le discriminazioni dettate dall’appartenere a due categorie già fortemente discriminate, ma moltiplicandole.
Una delle violenza “multiple” affrontate solo poco tempo fa, è la violenza contro le lesbiche e quella che si sviluppa nelle coppie di due donne. Ancora oggi è difficile accettare la possibilità che anche le relazioni lesbiche possano nascondere agiti violenti. Tale difficoltà rende più complicato individuare la violenza all’interno delle coppie lesbiche anche in ragione delle peculiarità legate al differente contesto di vita di queste donne (appartenenza alla comunità LGTBQI, luoghi di aggregazione, forme di socialità) e al fatti che la violenza viene agita da un soggetto che vive già una doppia discriminazione: quella esercitata dalla società patriarcale e legata all’omofobia.
Un altro esempio di doppia discriminazione è quella che riguarda le donne straniere, spesso oggetto di comportamenti discriminatori sia in quanto donne, che in quanto vittime di atteggiamenti razzisti. Come emerge dal lavoro di ricerca svolto dal PICUM (Platform for International Cooperation on Undocumented Migrants), tale doppia discriminazione è tanto più grave quanto più la condizione della donna straniera è precaria nel contesto di migrazione: le donne senza documenti sono, ad esempio, maggiormente a rischio di essere soggette schiavitù lavorativa o sessuale, hanno sostanzialmente minor possibilità di ricevere adeguate cure mediche (ivi compreso l’accesso alle cure legate alla loro salute riproduttiva), sono maggiormente vittime di abusi e violenze.
Gli effetti di queste doppie discriminazioni agiscono singolarmente, ma rappresentano anche la conseguenza dell’incrocio delle diverse penalizzazioni derivanti dall’appartenente simultaneamente a categorie sociali differenti.
Attraverso il cosiddetto “approccio intersezionale” le studiose femministe propongono ormai da diversi anni uno strumento di analisi capace di tenere assieme la complessità dell’esperienza del singolo a partire dalla sua simultanea appartenenza a gruppi sociali differenti, nel tentativo di raggiungere una più accurata comprensione di come sistemi basati sulla interdipendenza di forme di privilegio ed oppressione quali il colonialismo, il razzismo, l’omofonia, l’abilismo e il patriarcato vengano creati e perpetrati all’interno della società.
La legge n.69, in materia di violenza di genere – cosiddetta “Codice Rosso” – è entrata in vigore il 19 agosto del 2019. Il decreto prevede una velocizzazione delle indagini e dei procedimenti giudiziari nei casi di violenza sulle donne. In particolare la polizia giudiziaria dovrà comunicare ai Pubblici Ministeri le notizie di reato e la denuncia della donna che dovrà essere ascoltata dal magistrato entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Se la violenza viene accertata, il maltrattante potrà incorrere ad una condanna che va dai 3 ai 7 anni di carcere. La pena sarà aumentata nel caso in cui l’aggressione sia stata armata o avvenuta dinanzi a un minore, a un disabile o ai danni di una donna in gravidanza. La legge prevede, inoltre, l’introduzione del reato di Revenge Porn, di sfregio del volto, di stalking e quello riguardante i matrimoni forzati.
A fronte di ciò, i Centri antiviolenza, che quotidianamente, affrontano in maniera concreta il problema della violenza contro le donne ritengono che questa nuova legge offra una risposta insufficiente al fenomeno. Quello prospettato dalla legge, infatti, è un intervento emergenziale che prevede principalmente le misure penali, a fronte di un problema che è, invece, strutturale e radicato nella società. La legge, ad esempio, non prevede un ruolo centrale e risorse finanziarie a favore dei Centri antiviolenza che accolgono, secondo i dati messi a disposizione dalla Rete dei Centri antiviolenza D.i.Re oltre 21.000 donne ogni anno.
Allo stesso modo, il decreto, non accenna alla messa in campo di misure volte alla formazione del personale giudiziario e di polizia. Inoltre, l’esperienza dei Centri, permette di valutare criticamente i tre giorni che intercorrono fra la denuncia della donna e il coinvolgimento del magistrato, In quanto rischiano di diventare uno spazio temporale pericoloso poiché la messa in sicurezza della donna, in quel lasso di tempo, non è sempre scontata. Spesso dopo la denuncia il rischio aumenta e la donna deve trovare protezione immediata.
Inoltre, se è visto in questi primi mesi che l’acceleramento delle procedure ha significato il sovraccaricare le procure in procura che, già sottodimensionate nel personale, rischiano di non riuscire ad affrontare in maniera efficace il nuovo carico di lavoro. Il recente femminicidio di Adriana Signorelli, commesso a Milano, proprio dal marito che la donna aveva denunciato tre giorni prima, attivando la prassi prevista dal Codice Rosso testimonia l’insufficienza di tale provvedimento se non supportato con investimenti strutturali e di formazione.
Per debellare un fenomeno complesso e strutturale come la violenza contro le donne, c’è bisogno di interventi integrati, che facciano i conti con pratiche e realtà complesse che coinvolgano tutti gli attori di una ampia rete.
La Casa Rifugio è una abitazione (quasi sempre ad indirizzo segreto) nella quale la donna vittima di violenza può abitare per un periodo limitato al fine di intraprendere un percorso di allontanamento emotivo e materiale dalla relazione violenta. È un posto sicuro e protetto in cui, lontana dal maltrattante, la donna - con o senza le proprie figlie e i propri figli minorenni - può iniziare a ricostruire con serenità la propria vita e la propria autonomia. Nelle Case Rifugio sono accolte donne maggiorenni, italiane e straniere per un tempo che va dai 6 fino ai 12 mesi.
Questo tempo é necessario affinché la donna possa ricostruirsi emotivamente e riesca a riacquistare l’autostima e la forza necessarie a portare avanti i suoi obiettivi, la sua serenità e quella delle sue figlie e dei suoi figli, trovare un’abitazione alternativa sicura, o avere assegnata la propria abitazione familiare nei casi in cui siano presenti minori a carico.
Nelle Case sono presenti delle operatrici esperte e volontarie che costituiscono il riferimento emotivo e pratico per le donne ospiti, pianificando insieme a loro il percorso di uscita dalla violenza. Inoltre, collaborano anche delle educatrici che si occupano dei bambini e delle bambine, che hanno subito violenza assieme alle loro mamme o che vi hanno assistito.
L’ingresso in Casa Rifugio può avvenire in emergenza oppure attraverso una scelta concordata e valutata in una serie di colloqui con l’operatrice. L’ospitalità in emergenza, a secondo delle prassi di ogni città, e normalmente garantita h.24 e la permanenza prevista è di un mese, prorogabile, in accordo con la donna stessa e con il Servizio Sociale. In particolare a Bologna l’ingresso in Casa Rifugio viene attivato su richiesta del Pronto Intervento Sociale o delle Forze dell’Ordine.
L’esperienza in Casa Rifugio, sebbene presupponga vissuti traumatici e difficili, consente alla donne di riconoscere e riflettere sulla violenza subita, sperimentando le loro paure ma anche, e soprattutto, il loro coraggio. Non più sole, possono specchiarsi e riconoscersi nelle storie delle altre, e nelle operatrici di riferimento, condividendo con loro molto più di un tetto sopra la testa.
Arriverà un tempo in cui le Casa Rifugio non saranno più necessarie? Sebbene la soluzione auspicabile sarebbe quella che prevede l’allontanamento del partner dall’abitazione spesso ciò non accade. Le donne devono fuggire per garantire la propria sicurezza.
Purtroppo, in Italia, la rete D.i.Re ha a sua disposizione 120 case rifugio, ma mancano ancora posti letto disponibili per poter far fronte alla crescente richiesta di aiuto delle donne che cercano una via d’uscita dalla violenza. In Italia il numero di posti letto all’interno delle Case Rifugio, che fanno parte della rete D.i.Re, sono appena 680, di questi 39 sono messi a disposizione dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna. Tali numeri riflettono bene la necessità di investire più risorse sul numero di Case Rifugio in Italia così che ogni donna in pericolo possa avere la possibilità di essere accolta in modo tempestivo al Sud come al Nord, nelle grandi città come nei piccoli centri.
Il mobbing è una forma di persecuzione operata ai danni di un singolo individuo o di un gruppo di persone. Il termine deriva dal verbo inglese to mob, che tradotto letteralmente significa “attaccare con violenza, assalire in massa”. La forma più nota di mobbing è quella che avviene sul luogo di lavoro. Tuttavia esso può essere esercitato anche in altri ambiti quali i corpi militari, i condomini, la scuola e anche la famiglia.
Obiettivo ultimo del mobbing è quello di creare nella vittima un forte senso di isolamento sociale, fino a costringerla al licenziamento o al trasferimento in altro luogo. L’isolamento sociale viene ottenuto da parte del persecutore non solo attraverso la messa in atto di comportamenti atti a vessare e perseguitare la vittima, ma anche attraverso la spesso tacita connivenza dalle persone che assistono alle condotte violente e non intervengono per porre loro fine. Il mobbing è una forma di violenza fortemente sessista, poiché colpisce in maniera disproporzionata le donne rispetto agli uomini.
Ancora oggi, ad esempio, le donne vengono rese oggetto di atti persecutori e demansionamenti in seguito ad assenze legate ai congedi di maternità. Nonostante la legge proibisca esplicitamente questo tipo di comportamenti non sono rari i casi in cui le donne, al rientro sul lavoro in seguito ad una gravidanza, trovino i loro compiti precedenti assegnati ad altri, oppure vengano assegnate ad altro tipo di attività al fine di indurle alle dimissioni.
Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Nazionale Mobbing delle 800mila donne che sono state licenziate o costrette a dimettersi fra il 2013 e il 2015 almeno 350mila sono state oggetto di discriminazione a causa della maternità, o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare. Oltre ad essere discriminate in seguito alla maternità le donne sono anche vittime di molestie e ricatti sessuali sul lavoro. Secondo una ricerca condotta dall’ISTAT, fra il 2013 e il 2016 più di 404mila donne hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Tali violenze vengono spesso esercitate sulle donne sotto il ricatto di possibili licenziamenti, o vengono poste come condizioni necessarie per essere assunte o per ottenere progressioni di carriera. Seppure il mobbing non rientri tra i reati esplicitamente previsti dal nostro ordinamento chi ne è vittima può tutelarsi attraverso una serie di leggi che sono previste all’interno del codice penale italiano e che puniscono reati quali gli abusi d’ufficio, le percosse, le molestie, le lesioni personali volontarie, l’ingiuria, le minacce e la diffamazione.
Le donne sono sempre più spesso vittime di episodi di aggressione e violenza anche su internet e sui social media. La violenza di genere in rete rappresenta il riflesso delle disuguaglianze e delle discriminazioni vissute quotidianamente dalle donne e risponde alle medesime finalità: impedire alle donne la piena partecipazione alle opportunità offerte dalla rete spesso attraverso l’uso massiccio di insulti e minacce. Forse le forme più note di violenza di genere in rete sono il così detto Revenge porn e il Cyberbullismo.
Con Revenge porn si indica la pratica di diffondere online immagini intime, spesso concernenti la sfera sessuale di un individuo, allo scopo di causare ansia o isolamento sociale alla persona rappresentata.
Fondamentali nella definizione del Revenge porn sono tre aspetti: la diffusione delle immagini su internet, il mancato consenso della persona ritratta alla distribuzione delle proprie immagini, ma soprattutto la ratio alla base della pratica che è riconducibile alla volontà di ottenere vendetta nei confronti di una persona attraverso la distribuzione di sue immagini intime. Tali immagini o materiali video, spesso ripresi consensualmente all’interno di una relazione di coppia, vengono impiegati per punire, ricattare o provare a controllare la vittima nel momento in cui esprima la volontà di porre fine alla relazione.
Scopo del Revenge porn è quello di umiliare e provocare sofferenza nella vittima riducendola in uno stato di terrore dinanzi alla possibilità di vedere lesa pubblicamente la propria immagine e la propria dignità. Generalmente le vittime di Revenge porn riportano infatti l’impossibilità di riuscire a mantenere una vita socialmente attiva, denunciano la perdita della posizione lavorativa, e manifestano la comparsa di attacchi di panico e l’insorgere di patologie depressive. Nei casi più estremi il Revenge porn può arrivare ad indurre le donne al suicidio. Il caso più noto ad oggi in Italia è probabilmente quello di Tiziana Cantone, una giovane donna campana di appena 29 anni che si è tolta la vita nel 2016 in seguito alla distribuzione online di alcuni suoi filmati intimi.
Seppure la dimensione della vendetta non trovi al momento un riconoscimento preciso all’interno del nostro ordinamento, a partire dal mese di agosto del 2019 la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti è stata riconosciuta come reato dal legislatore. In particolare, coloro che diffondono immagini pornografiche senza aver acquisito il consenso di coloro che sono ritratti rischiano oggi la reclusione da uno a sei anni e una multa da 5mila a 15mila euro, senza contare eventuali circostanze aggravanti come, ad esempio, che il fatto sia commesso dal coniuge o dall’ex coniuge.
Il Cyberbullismo si colloca in una simile posizione in quanto, seppur non facendo direttamente riferimento nella sua denominazione ad una dimensione di genere, definisce un insieme di comportamenti lesivi condotti attraverso gli strumenti della rete che colpisce in maniera disproporzionata le donne, rispetto alla loro controparte maschile. Ad esempio, uno studio sul cybebullismo fra i giovanissimi condotto nel 2014 dall’ISTAT mette in evidenza come siano proprio le ragazze ad essere maggiormente soggette ad attacchi sulla rete, confermando come anche all’interno della rete la violenza sulle donne rappresenti un problema di tipo strutturale.
Con l’espressione violenza assistita si indica la violenza subita dai figli minori che si trovano a vivere all’interno di una famiglia entro cui avvengono maltrattamenti e violenze. In particolare, secondo la definizione che ne dà il Coordinamento Italiano dei Servizi Contro il Maltrattamento e l’Abuso dell’Infanzia (CISMAI), la violenza assistita rappresenta il «fare esperienza da parte della bambina o del bambino di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori». Al contrario di quanto si potrebbe comunemente pensare, anche nel caso in cui i bambini non siano soggetti in prima persona a maltrattamenti o atti violenti, venire esposti all’interno dell’ambito familiare alla violenza perpetrata su altri rappresenta un evento fortemente traumatico, che può determinare l’insorgere di forti stati di angoscia, depressione e rabbia.
Secondo una recente ricerca, condotta da Save the Children, a partire dai dati diffusi dell’ISTAT nel 2015, sono circa 427.000 i minori che, tra il 2009 e il 2014, hanno vissuto e testimoniato la violenza nei confronti delle loro mamme fra le mura domestiche. Un dato allarmante che dovrebbe far riflettere su quanto il fenomeno della violenza assistita sia ancora troppo poco considerato e ne sia ignorata la portata traumatica. Eppure dai numeri emerge che in Italia tra gli oltre 6,7 milioni di donne che secondo l’ISTAT hanno subito violenza nel corso della vita – più di 1a su 10 abbia avuto paura per la propria incolumità o per quella dei propri figli. Si stima, inoltre, che le figlie e i figli siano stati testimoni di circa la metà dei casi di violenza subita dalla loro madri e che in più di 1 caso su 10 siano stati vittime dirette di abusi e violenze da parte dei padri.
E’ proprio per i figli e le figlie che le donne spesso trovano la forza di uscire dalla violenza. In particolare, il coinvolgimento diretto di figli e figlie negli episodi di maltrattamento, sia assistito che subito, rappresenta una spinta a cercare una via di fuga alle violenze subite, uno sprono a denunciare o a cercare protezione, rifugio e sostegno.
La Giornata Mondiale per i Diritti Umani venne istituita per la prima volta nel 1950 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per ricordare la proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ufficialmente ratificata il 10 dicembre del 1948.
La Giornata mondiale dei diritti umani segna la chiusura della campagna dei “16 giorni di attivismo contro la violenza sulle donne”, lanciata per la prima volta dall’Istituto per la Leadership Mondiale delle Donne nel 1991 al fine di favorire la promozione di attività e iniziative volte a sostenere una presa di consapevolezza circa il tema della violenza sulle donne.
La scelta di terminare la campagna il 10 dicembre non è casuale, ma è legata al profondo legame che intercorre fra la nozione di diritti umani e quella di diritti delle donne. In particolare la frase «i diritti delle donne sono diritti umani» viene utilizzata dai movimenti femministi per rimarcare l’inalienabile legame che lega i diritti delle donne ai diritti umani e universali, ma anche per sottolineare l’importanza che per le donne hanno le violazioni dei diritti che avvengono in famiglia, nell’ambito privato.
Come sottolineato dai movimenti femministi le violenze che le donne subiscono nella sfera privata, seppur non evocate direttamente dalla Dichiarazione Universale per i Diritti Umani, impediscono loro, di fatto, di godere di una piena e uguale partecipazione alla vita politica, civile, economica, sociale e culturale di stati e nazioni.
L’importanza della violazione dei diritti delle donne in ambito privato è stata riconosciuta per la prima volta nel corso della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani di Vienna, nel 1993. All’interno di tale conferenza venne infatti sancito per la prima volta che «i diritti umani delle donne e delle bambine sono un’inalienabile, integrale e indivisibile parte dei diritti umani» e che le forme specifiche di violenza contro le donne rappresentano una violazione dei diritti umani. Poco tempo dopo, sempre nel 1993, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto le violenze sistematiche e di massa commesse contro le donne – come lo stupro etnico, le gravidanze forzate, i reati connessi alla tratta di essere umani finalizzata allo sfruttamento sessuale – come crimini contro l’umanità perseguibili dalla Corte Penale Internazionale.
In tutto il mondo ormai si celebrano i #16days di attivismo, chiamati anche #Orangeday contro la violenza alle donne per sensibilizzare politici e cittadinanza sul problema strutturale e diffuso in tutti paesi del mondo.